La bioenergetica per la gestione dello stress

All’interno del nostro corpo produciamo quotidianamente e costantemente energia attraverso respirazione e metabolismo, scaricandola poi col movimento. La quantità di energia di cui disponiamo, e la maniera in cui la utilizziamo, determinano il modo in cui rispondiamo alle molteplici situazioni che la vita ogni giorno ci pone di fronte. Tanto maggiore sarà l’energia a nostra disposizione da tradurre in movimento ed espressione, tanto più efficacemente sapremo affrontarle.

Il corpo e la mente sono funzionalmente identici: quello che succede nella mente, infatti, riflette quello che succede nel corpo e viceversa. Ciò che pensiamo può influenzare il modo in cui avvertiamo le sensazioni e lo stesso vale per il contrario.
Questa interazione, tuttavia, è limitata agli aspetti consci della personalità. A un livello più profondo, ovvero dell’inconscio, sia il pensare che il sentire sono condizionati da fattori energetici: per esempio, è quasi impossibile, per una persona depressa, emergere dalla propria depressione con l’ausilio di pensieri positivi e questo perché il suo livello di energia è altrettanto depresso. I processi energetici del corpo sono in relazione quindi con lo stato di vitalità del corpo.
La rigidità così come la tensione cronica diminuiscono la vitalità e abbassano l’energia.
Ogni” stress” produce uno stato di tensione nel corpo che normalmente scompare quando riusciamo ad eliminarlo.
Le tensioni croniche, tuttavia, persistono anche dopo la scomparsa dello stress che le ha provocate, come atteggiamento corporeo o assetto muscolare inconscio. I differenti tipi di tensione cronica che si manifestano nel corpo possono essere considerati come un congelamento della storia infantile e adolescenziale dell’individuo, o , in altre parole una “mappa del carattere” della persona stessa.
La Bioenergetica, infatti, ci insegna a capire la personalità, nostra e di chi ci sta attorno, attraverso i suoi processi energetici.

Lo studio dei blocchi energetici e della maniera in cui possiamo superarli con successo così come una serie di esercizi che ci aiuteranno a respirare meglio e più correttamente, ad intensificare le nostre percezioni, ad avere un più profondo senso di autocoscienza e ad utilizzare nella maniera più funzionale ed efficace la nostra energia interna sono solo alcuni degli importanti aspetti che verranno presi in esame, dapprima teoricamente per poi essere immediatamente applicati in maniera pratica su noi stessi, all’interno di questo corso in quattro giornate “riassunto” comunque in maniera essenziale in questo seminario.
Una corretta presa di coscienza della nostra energia interiore, infatti, e l’acquisizione di tecniche ed esercizi per poterla gestire funzionalmente ci aiuteranno ad affrontare in maniera più salutare ed efficiente sia quanto il mondo del lavoro ci pone di fronte durante la settimana che la nostra stessa vita.

Maurizio Balboni – consulente ETLINE e Associati

Automotivazione e comunicazione

“Ognuno di noi possiede le risorse sufficienti per realizzare ciò che vuole”
presupposto della PNL

Quando ci addentriamo nel settore delle risorse umane è praticamente inevitabile non avere a che fare con il fenomeno del “motivare se stessi”, sia in funzione del raggiungimento di obiettivi personali, sia per poter successivamente applicare la metodologia acquisita all’interno del proprio gruppo di lavoro.
Inutile spiegare come spesso si confonda ( in maniera più o meno consapevole) la parola “automotivazione” con una sorta di formula magica con la quale ottenere successi personali e professionali di ogni ordine e grado. Un breve sguardo agli scaffali relativi ai settori specifici delle più fornite librerie delle nostre città potrà togliere ogni dubbio a chi non fosse realmente convinto di tutto questo: perfettamente “automotivati, numerosi autori si fanno fotografare sulla copertina del proprio libro ammiccando gesti atti ad infondere fiducia nel successo derivante dalla lettura del libro stesso. Successi che, qualora capitasse di procedere all’acquisto del libro ed alla lettura conseguente, si vedrà spaziano dal dimagrimento, alla vincita al gioco, all’acquisto del castello e dell’immancabile Ferrari “testa rossa”.
Verrebbe da domandarci se siamo di fronte ad una reale formula magica, ad una moderna panacea o solo ad un’operazione commerciale.
Probabilmente nessuna di queste cose: sugli stessi scaffali sopra citati, infatti, sarà possibile trovare altri testi sul motivare se stessi che, senza promettere miracoli e sopratutto evitando di raccontarne (veri o falsi che siano), ci introdurranno realmente all’interno di questa disciplina semplicemente cercando di metterci più in contatto con noi stessi.
A tutti, infatti, sarà capitato di avere l’amico, la vicina di casa od il parente che sin da bambino sembra essere diretto al successo, qualsiasi impegno prenda: spesso ci rassegniamo di fronte all’evidenza di questa situazione magari nascondendo dentro di noi una forma di debole invidia, senza neppure chiederci perché questo accada.
Prendendo in esame quello che sono state le nostre esperienze passate (fondamentale risulta il periodo che va dalla nascita all’adolescenza) e soprattutto le risposte che abbiamo ricevuto da chi è stato vicino a noi, possiamo iniziare a vedere cosa non ci ha permesso di formare delle solide basi sulle quali costruire la propria stima.
Sull’autostima, infatti, si appoggia il motivare se stessi in maniera efficiente e funzionale: la mancanza di una capacità di motivazione, infatti, non solo impedisce di stimolarci in maniera positiva ma soprattutto non permette di formulare obiettivi chiari ed efficaci con i quali raggiungere mete effettivamente desiderate e funzionali per la nostra crescita professionale e personale.
Partendo dalle possibili cause, quindi, passeremo a vedere le capacità di formulare obiettivi e di accettare e creare cambiamenti utili a noi stessi.
Prendere coscienza di ciò che può avere frenato un regolare sviluppo non solo della maniera in cui ci giudichiamo ma soprattutto della capacità di ascoltarci e chiederci cosa realmente desideriamo dalla vita, quindi, è solo il primo passo che faremo in direzione di un’automotivazione che non ci prometterà dei miracoli ma sicuramente ci aiuterà ad essere meglio”sintonizzati” con noi stessi.

 

La gestione delle riunioni

Nell’era in cui le relazioni (in modo particolare quelle lavorative) tra le persone sono sempre più affidate al mondo dell’informatica e della tecnologia, continuiamo a sentire l’esigenza del rapporto diretto, del confronto immediato e, per così dire, più “umano” con gli altri: è ciò che giustifica l’esistenza dei meeting, dei congressi o delle convention e, in una realtà più piccola e frequente, quella delle stesse riunioni di lavoro
La riunione, infatti, rappresenta una tipologia di incontro di fondamentale importanza all’ interno del mondo lavorativo: il momento in cui si ha la possibilità di confrontarsi direttamente con agli altri, di scambiare opinioni ed idee, di discutere, proporre, confutare od approvare nuove e vecchie metodologie. Il momento in cui il contatto diretto coi propri superiori, dipendenti o comunque con colleghi che non sempre riesco ad incontrare, può favorire lo scambio di opinioni e di nuove idee utili sia a se stessi che all’intera azienda.
Eppure molto spesso usiamo questo fondamentale momento di incontro in maniera errata o non ben strutturata, con il risultato di una più o meno totale perdita di tempo e di un conseguente senso di scoraggiamento da parte di chi vi partecipa: sensazioni che le stesse persone, per altro, porteranno con sé anche agli incontri successivi con effetti sicuramente non positivi per la riunione o per l’azienda stessa
Il seminario, che come sempre risulta essere una sorta di “bonsai” dei nostri corsi su come organizzare e gestire questo tipo di incontro, prende le mosse dall’identificazione delle diverse tipologie possibili di riunione ( informative, consultive e decisionali) per poi analizzarne le differenti caratteristiche e la maniera in cui poterle identificare.
Di fondamentale importanza sarà poi passare ad individuare le principali cause di dispersione del tempo e le tanto cattive quanto diffuse abitudini che ci portano a non organizzare l’incontro nella giusta maniera e, soprattutto, a non saperlo gestire correttamente: come distinguere, quindi, le questioni prioritarie da quelle urgenti individuando obiettivi a medio o breve termine e come il rapporto tra il tempo psicologico percepito e quello reale sia il fattore alla base dell’eventuale stress interno alla riunione stessa.
Sul piano più strettamente organizzativo inoltre, si mostreranno le varie parti in cui l’incontro viene suddiviso, per così dire, naturalmente: dall’ allestimento dell’aula e convocazione dei partecipanti sino alla chiusura dell’incontro con richiesta dei feedback, la verifica dei risultati ed il piano di azione successivo.
E quindi: buona riunione a tutti

 

Piccolo dizionario per parlare con i cani

Di Simona ManettiEducatore cinofilo associato A.P.N.E.C

Chiunque abbia avuto l’occasione di condividere un certo tempo con un cane sa che la comunicazione tra gli umani ed i cani è possibile. Ma la precisione della comunicazione e la comprensione reciproca approfondita hanno bisogno di compilatori che “traducano” la nostra lingua nella loro e ci consentano di capire con sufficiente precisione cosa i cani ci vogliono dire e come.

Una prima evidenza cruciale va tenuta presente : gli esseri umani dispongono di un linguaggio simbolico che permette la metacomunicazione (parlare della comunicazione), mentre i cani no.Questa è una differenza sostanziale che va sempre tenuta presente: noi possiamo passare ore a discutere se quello che mi hai detto aveva proprio quell’intenzione mentre per i cani questo doppio livello dialettico non ha alcun significato.

La comunicazione umana viaggia su due livelli : il contenuto esplicito (il verbale) e il “supporto” su cui la comunicazione si appoggia (non verbale e paraverbale). Sappiamo ormai con certezza che l’efficacia della comunicazione tra umani è a vantaggio del secondo aspetto (non verbale e paraverbale) e che, in caso di incongruenza, l’umano spontaneamente da credito al non verbale.

La comunicazione con i cani è quindi affidata totalmente al non verbale : i cani sono eccellenti decodificatori del nostro non verbale, molto più acuti di noi.Il luogo comune dei cani che “sentono” il nostro stato d’animo non è privo di verità : la loro capacità di leggere anche i minimi segni che inviamo, unita ad un senso dell’olfatto sviluppatissimo che li porta a rilevare tutti i segnali chimici connessi ai nostri stati d’animo, li rende eccellenti interpreti della nostra razza.

Se è chiaro il modo attraverso cui si può comunicare con loro, non altrettanto scontato è l’ambito di interesse comune. Noi umani comunichiamo tra noi su tutto lo scibile, dall’ultimo abito di moda alla teoria della relatività. I cani comunicano tra loro sulla base di altri interessi e di una diversa scala di valori.

Non dimentichiamo infatti che c’è una discendenza diretta del nostro attuale cane familiare dai lupi. I lupi sono canidi sociali che vivono in branco e sono predatori normalmente di animali di dimensioni ragguardevoli rispetto alla mole del singolo individuo. Questo ha portato la specie ad acquisire una comunicazione estremamente efficace interspecie per tutto quello che concerne la vita sociale, in modo da poter vivere in gruppo senza uccidersi reciprocamente, da poter cacciare in accordo con gli altri membri e da poter allevare la prole con successo.

Sappiamo molto della comunicazione interspecie grazie agli studi effettuati sui lupi, sia in cattività sia allo stato libero. I nostri cani, pur essendo perenni “lupi bambini” (neotenia) sembrano ancora perfettamente in grado di comunicare con i loro progenitori, pertanto è possibile supporre che i codici comunicativi che valgono per i lupi siano altrettanto efficaci nella nostra ricerca di un “dizionario” per comunicare coi nostri cani domestici.

Il messaggio fondamentale per un canide sociale predatore è dato dalla struttura gerarchica del gruppo nel quale è inserito. Al di là di tutte le considerazioni anche etiche, più o meno corrette, che lo studio dei branchi ha evidenziato, in questo tipo di società è fondamentale per ogni individuo conoscere quale è l’organizzazione operativa dei membri, a chi si deve fare affidamento in caso di emergenza, quale è il posto che ogni singolo occupa, quali sono i suoi “diritti e doveri”.

E se questa può sembrare tematica da poco, non dimentichiamoci che la finezza in questa comunicazione significa la salvezza della specie : se infatti non fosse chiaro (e ritualizzato) se il comportamento che il singolo agisce è per gioco o serio, questi animali in breve si ucciderebbero tra loro.

I cani probabilmente vivono con noi da circa 15.000 anni : in termini evolutivi questo è un tempo abbastanza breve per aver cambiato drasticamente il sistema comunicativo di base. Ciò significa che, pur in una organizzazione ambientale profondamente differente, i nostri compagni canini hanno ancora fortemente bisogno dei punti di riferimento che in natura hanno consentito loro il mantenimento della specie.

Provate ad immaginarvi di essere un cane di famiglia : siete totalmente dipendenti dalla volontà di un essere di un’altra specie per tutte le esigenze primarie (mangiare, bere, dormire, evacuare etc.), venite “sballottati” da un luogo all’altro (casa, macchina, vacanze etc.) senza sapere dove venite portati, quanto tempo durerà, venite lasciati soli per non sapete quanto….
Senza entrare troppo nella discussione in corso tra studiosi che oppone coloro che ritengono che il cane di famiglia identifichi i suoi conviventi umani come parte del suo branco o meno, è abbastanza chiaro quanto sia importante per il nostro cane capire come è fatta l’organizzazione sociale in cui è inserito.

E qui sorgono i primi “effetti false friend” : noi umani, inconsapevolmente, mandiamo segnali al cane che, nella sua “lingua”, hanno un significato profondamente diverso dalle nostre intenzioni.

In più, per noi umani sono fondamentali alcune risposte dal nostro cane di famiglia che talvolta (o spesso) per lui non hanno alcun significato, se non peggio, quando sono in aperto contrasto con la sua natura.

Il dilemma non è insolubile come sembra; è fondamentale però, a mio parere, convincersi di un presupposto. Siamo noi umani a dover fare il primo passo (e lo sforzo) di imparare la lingua dei cani prima di pretendere che loro imparino la nostra.

E l’unica strada percorribile che finora sembra aver dato grandi risultati è quella che passa per lo studio accurato della grammatica e della sintassi del linguaggio dei canidi sociali (lupi e cani) e dell’ambito di applicabilità, oltre alla profonda comprensione delle “ragioni d’essere” della razza. Solo in questo modo, seppur con uno “slang” non sempre corretto, ci sarà possibile avviare un “tavolo di comunicazione” con i nostri cani famigliari e pensare poi ad insegnare loro, almeno parzialmente, il nostro modo di comunicare.

La bibliografia in merito è vasta e un articolo non può certamente coprire tutti gli aspetti della comunicazione; certamente però alcune macro indicazioni possono essere utili a livello generale, lasciando al singolo l’approfondimento e, soprattutto, la ricerca del senso che muove il cane e gli fa agire un certo comportamento (motivazione).

La prima macroindicazione che ci sembra fondamentale per chiunque condivida la vita con un cane riguarda i principali segnali che il cane interpreta per chiarirsi la struttura sociale del branco familiare in cui è inserito.

La figura di riferimento di un branco di canidi (o leader o capobranco) ha la gestione delle risorse critiche, gode del rispetto di tutti i membri del branco e funge da garante della sicurezza.
Questo si sostanzia, tra le altre cose, in:
– priorità nell’accesso alle risorse quali cibo, posizioni critiche, priorità nei saluti
– controllo accessi e presenza in caso di allarme
– determinazione della direzione da seguire.

Se traduciamo questo in comportamenti e relazioni sociali tra cane di famiglia e uomo ciò significa:
– chi mangia per primo (quanti cani ricevono il cibo prima che noi ci sediamo a tavola?)
– chi dorme sui luoghi alti e comodi (divani, letti etc.)
– chi decide quando iniziano e finiscono i cerimoniali di saluto e i giochi (quanti padroni, appena arrivano a casa, salutano con feste i propri cani che li hanno aspettati a casa tutto il giorno?)
– chi controlla i passaggi critici (soglie, passare per primo dalle porte etc.)
– chi stabilisce se un evento è pericoloso per la salvaguardia del branco (quanti cani “difendono” aggressivamente il proprio territorio, la propria macchina, la propria ciotola?)

Noi umani diamo un significato a certe azioni (es. al cane viene dato da mangiare prima della cena di famiglia in quanto è più agevole per chi prepara) che però, nel linguaggio del cane, significano ben altro (effetto false friend). Per il cane è geneticamente fondamentale leggere la relazione gerarchica del suo branco e, ove non riconosce un leader che chiaramente agisce come tale, in mancanza d’altro si arroga il difficile compito da agire da sé questo ruolo. E, lui si, si comporta di conseguenza.

E’ però fondamentale precisare che queste indicazioni sono standard e non possono né devono essere applicate sempre ed alla lettera : ci sono infatti cani con caratteri molto decisi che hanno bisogno di compagni umani chiari e con modalità di comunicazione senza eccezioni, ma non dimentichiamo che la maggior parte dei nostri cani, soprattutto se vivono con noi da quando sono cuccioli, non hanno necessità che venga loro ricordato, in ogni istante, chi è la figura di riferimento. Di solito lo hanno appreso perfettamente e solo in alcuni casi, o in certi periodi della loro maturazione (periodo giovanile, paragonabile grossolanamente alla “crisi” adolescenziale degli umani) è necessario ricordarlo loro.
Quello che però è indispensabile con ogni cane, indipendentemente dal carattere e dal momento di vita è la coerenza non solo personale (se il cane non può salire sul divano non può farlo mai, anche quando siamo depressi e abbiamo bisogno di un ammasso di pelo su cui piangere) ma di tutti i membri della famiglia in cui è inserito, onde evitare che con alcuni il cane pensi di potersi comportare diversamente (tipico è il caso in cui il cane non ringhia agli adulti quando gli chiedono di lasciare loro una preda che ha in bocca mentre la stessa richiesta, fatta dal bambino, fa apparire ringhi di avvertimento se non dimostrazioni di intolleranza).

Ecco allora spiegati molti comportamenti che spesso i proprietari non riescono a interpretare : cani che ringhiano se si prova a toglier loro la ciotola o un gioco o a farli scendere dal divano, cani che “pizzicano” i bambini che li stanno torturando da ore etc.

E’ necessario sottolineare che il rispetto del cane va raggiunto attraverso la nostra dimostrazione, nella sua lingua, di autorevolezza; l’autoritarismo, soprattutto se condito dalla violenza, porta solo ad avere un animale che non ci capisce e che basa la sua relazione con noi sulla paura e non sul rispetto. Ricordiamoci inoltre che, proprio osservando il comportamento di cani e lupi, sappiamo che la violenza, fine a se stessa, non viene praticamente mai agita : questi animali infatti, tra loro, esprimono comportamenti che noi umani definiamo spesso “aggressivi” (tipico il caso della zuffa tra cani al parco) ma che in realtà, se noi non interveniamo, difficilmente hanno esiti nefasti. I cani infatti sono ottimi “attori” : la loro comunicazione è fortemente ritualizzata e molto espressiva ma risponde all’esigenza naturale di evitare il più possibile di produrre danni in quanto un animale ferito, in natura, è maggiormente a rischio sopravvivenza.

A questo vanno aggiunti altri 2 elementi:
– spesso ai cani chiediamo di agire comportamenti che vanno contro le loro ragion d’essere
– non leggiamo correttamente i segnali non verbali che i nostri cani ci mandano di continuo, (posizione delle orecchie, della coda, postura, vocalizzi, direzione dello sguardo, calming signals etc.) fino al punto che, alcuni cani, disimparano ad agirli a forza di non essere compresi.

Non dimentichiamoci che le razze canine sono un’operazione genetica totalmente umana, nata con lo scopo di elevare al massimo alcuni tratti somatici e caratteriali propri di alcuni individui. E’ allora quantomeno bizzarro pensare che tanto lavoro è stato fatto per garantire ad un animale un’eccezionale capacità di stanare piccole prede da cunicoli strettissimi e stupirsi poi se, istintivamente, rincorre e cerca di catturare il coniglio di casa o il gatto o il jogger che incontra al parco.

La nostra fortuna è che i cani sono decisamente interessati ad adottare atteggiamenti di buona convivenza : ciò rende possibile, attraverso un lavoro di comprensione e di educazione, spiegare loro che alcuni “automatismi” non hanno ragion d’essere e che il jogger di turno non è una preda da catturare.

Inoltre la nostra sensibilità e preparazione nel capire il linguaggio non verbale del cane è spesso decisamente insufficiente : non basta più, oggi, “aver avuto cani da sempre” per saper leggere il loro modo di comunicare, soprattutto in una realtà sociale come la nostra dove al cane sono richieste “prestazioni quotidiane” fuori dalle sue caratteristiche.

Ricordiamoci inoltre che dietro ad ogni segnale non verbale che il cane invia c’è una motivazione, uno stato interno che lo porta ad esprimere quel determinato insieme di comportamenti.
Non esiste quindi, a puro titolo di esempio, una spiegazione unica per un cane che abbaia e si agita quando, al guinzaglio, incrocia altri cani per strada : la ragione per cui agisce quell’insieme di comportamenti non è univoca e solo uno specialista di comportamento canino è in grado, osservando l’evento nel suo insieme, di capire se la reazione è data da paura o da bullismo, da sfida o come segnale di avvertimento o altro.
Certo molti proprietari hanno acquisito, nel tempo e con l’affetto, una certa sensibilità all’argomento anche se, soprattutto in caso di comportamenti che noi umani definiamo “patologici” le nostre reazioni istintive sono quasi sempre controproducenti e foriere di peggioramenti del sintomo che non ci piace (tipico è il caso, nella situazione citata, del proprietario che sgrida il cane alzando la voce o che lo trascina, forzando il collare, via dall’altro cane o che si irrigidisce non appena, in lontananza, vede apparire un cane).

La convivenza con un animale è una responsabilità che, una volta assunta, è per la vita : siamo “fortunati” se il nostro cane sarà quel meraviglioso peluche da cartone animato che abbiamo sempre sognato ma in caso contrario sarà sempre nostro dovere non sottovalutare la situazione e rivolgerci, come faremmo per un umano, a uno specialista serio e preparato che ci possa spiegare le ragioni e indicare le strategie migliori per garantirci un rapporto sereno ed equilibrato.
Tutto ciò senza dimenticare, però, che il cane, splendida creatura che ci può dare tanto affetto e tanta gioia, è un cane e come tale ha diritto a vivere la sua “caninità” senza dover diventare un soprammobile animato che vive rinchiuso in 4 mura (anche se di un castello) e vede la luce e l’aria aperta 3 volte al giorno, giusto per un veloce giretto per fare i bisognini!

E’ necessaria quindi tanta pazienza, la voglia di imparare (i veterinari e magari un buon educatore di riferimento sono un aiuto fondamentale) e tanta modestia nel porsi in rapporto con un essere diverso da noi ma profondamente complesso ed affascinante.

Bibliografia :
F. Cimatti – La mente silenziosa – Editori Riuniti
S. Budiansky – The truth about dogs – Phoenix
R. Abrantes – Il linguaggio del cane – Editoriale Olimpia
C. Price – Understanding the rescue dog – Broadcast Books
J. Fischer – Think dog – Cassell & Co.
R. Coppinger – Dogs – The University of Chicago Press
B. Gallicchio – Lupi travestiti – Edizioni 5
P. McConnell – Dall’altro capo del guinzaglio – Tea Pratica

Il corpo e la mente funzionalmente sono identici

Il corpo e la mente funzionalmente sono identici: cioè quello che succede nella mente riflette quello che succede nel corpo e viceversa. Alcuni pensieri producono stati emotivi che provocano delle contrazioni muscolari, nello stesso modo alcune contrazioni muscolari evocano in noi determinati stati emotivi , possiamo interrompere questo circolo vizioso partendo dal corpo allentando le sue tensioni e i suoi blocchi . I blocchi sono accumuli di energia vitale stagnante che si manifestano a livello fisico in contrazioni muscolari croniche e nello squilibrio della struttura ossea; a livello emotivo in paura, rabbia e chiusura in sé stessi; a livello mentale in rigidezza e passività.

Gli esercizi che presentiamo intendono aiutare i praticanti ad entrare in contatto con le proprie tensioni e a rilasciarle, con l’obbiettivo di divenire più acutamente consapevoli di sé stessi, aumentare la fiducia e l’autostima, ampliare gli orizzonti della propria espressione.

Seminario straordinario

di Massimo Piovano

Piccoli cambiamenti possono produrre grandi risultati, ma le aree in cui si possono verificare gli effetti migliori sono spesso quelle meno ovvie.
(P. Senge)

Nel libro “La Fattoria degli animali” di George Orwell, il cavallo Boxer aveva sempre la stessa risposta a ogni difficoltà: “Lavorerò di più”. All’inizio, la sua diligenza, piena di buone intenzioni, ispirava tutti; ma gradualmente il suo duro lavoro cominciò a dare luogo, in forme sottili, a reazioni negative. Più lui lavorava, più il lavoro aumentava. Quello che il povero cavallo non sapeva era che i maiali che dirigevano la fattoria lo stavano, in effetti, manipolando a loro profitto.
Il Pensiero Sistemico chiama questo fenomeno “limite al successo” o “retroazione compensativa”, che si verifica quando le performance calano nonostante il moltiplicarsi degli sforzi. Inizialmente, a sforzi crescenti corrisponde un miglioramento della performance, e più questa migliora, più siamo incoraggiati ad impegnarci. Poi, ad un certo punto, il successo raggiunge il suo limite massimo. Più spingiamo in avanti, più il sistema ci spinge indietro; più ci sforziamo di migliorare le cose, più il risultato finale sembra diminuire.
È un andamento che si incontra con grande frequenza nella vita, nel lavoro e anche nello sport. Per esempio, i singoli individui migliorano se stessi per un certo periodo di tempo, ma poi raggiungono il loro limite. Le organizzazioni crescono per un certo tempo, poi cessano di migliorare. Anche nell’apprendimento si verifica lo stesso processo: all’inizio le nuove nozioni vengono imparate rapidamente, poi sempre più lentamente.
In tutti i fenomeni del “limite al successo”, c’è sempre un processo di rafforzamento nella crescita o nel miglioramento che opera da sé per un certo periodo di tempo. Poi esso si imbatte in un processo di riequilibrio che tende a limitare il successo. Quando ciò si verifica, il tasso di miglioramento rallenta o perfino si arresta.
Tipicamente, la maggior parte delle organizzazioni e delle persone reagisce alle situazioni di “limiti al successo” cercando di intensificare gli sforzi: se il flusso di nuovi prodotti sta rallentando, occorre intensificare le vendite; se si hanno difficoltà relazionali, occorre passare più tempo con gli altri; se non si ottengono vittorie sportive, bisogna cambiare moduli di gioco e comprare nuovi campioni.
Sono tutte risposte comprensibili. Nelle fasi iniziali, quando si potevano vedere i miglioramenti, le strategie di intensificazione degli sforzi potevano sembrare efficaci. Ma quando il tasso di miglioramento rallenta, maggiore è la forza con la quale ci si impegna, maggiore è la resistenza del processo di riequilibrio e più vani diventano gli sforzi. È come se premendo l’acceleratore entrasse in azione anche il freno: premere con più vigore non sortirebbe alcun effetto.
Qual è la soluzione più efficace per “rendere al massimo” di fronte ai limiti del successo? Il seminario ha risposto al quesito evidenziando come l’effetto leva risiede non nel circuito di rafforzamento, ma nel circuito di riequilibrio. In pratica, per modificare il comportamento del sistema, si deve identificare e cambiare il fattore limitante. Ciò può esigere azioni e comportamenti che non sono stati ancora presi in considerazione, scelte che non sono state notate o cambiamenti difficili nei processi o nei metodi di lavoro.
Per comprendere le potenzialità di questa filosofia dell’effetto leva, si è svolta un’esercitazione coinvolgente e stimolante che ha permesso a ciascuno di riflettere e comprendere come con un minimo sforzo si possa ottenere un miglioramento durevole e significativo.
Al termine del seminario si sono tratte le seguenti conclusioni per continuare a “rendere al massimo”:
1) non si può fare tutto da soli;
2) se si lavora come squadra si può competere con qualunque avversario;
3) un sistema funziona quando tutte le sue parti lavorano bene insieme;
4) quando un elemento eccelle, il sistema intero potrebbe in realtà lavorare meno bene;
5) il comportamento d’un sistema dipende dalla sua struttura e non dalle sue parti;
6) grazie al principio dell’effetto leva si possono ottenere grandi risultati con piccoli sforzi se tali sforzi sono indirizzati nel punto giusto del sistema;
7) è meglio avere un piano, una procedura e seguirla che essere i migliori senza nessuna organizzazione.

L’intervista – Il colloquio di lavoro

Natalia Musazzi, HR Manager BNP PARIBAS

“Qual è il segreto per farsi assumere dopo un colloquio di selezione?”

Ecco la fatidica domanda che spesso, data la professione che svolgo, mi sento rivolgere… Vorrei essere in grado di trasferire su carta anche le espressioni di delusione (peccato che nel disegno sia sempre stata una frana!) che altrettanto spesso raccolgo sui volti dei miei interlocutori, quando affermo che, in realtà, una regola d’oro che assicuri il risultato non esiste.

Il noto slogan the right person for the right place esplicita già di per sé il motivo dell’assenza di una formula magica valida per tutti e dovrebbe tranquillizzare i candidati sul fatto che non esiste la persona giusta o sbagliata in assoluto.

Quello di “dar consigli” è sempre un compito arduo e difficile per me perché ritengo che non possano esistere dei consigli che davvero siano in grado di tener conto della complessità delle persone e delle situazioni in cui ci si imbatte di volta in volta. Vorrei semplicemente riportare la mia esperienza e da quella lascerò a chi legge il compito di trarre le conclusioni che più gli/le saranno utili.

Quando incontro i candidati la mia attenzione nelle fasi di ascolto e di osservazione di chi ho di fronte è rivolta su un duplice piano: da un lato tengo conto della job description, ossia delle caratteristiche che devo riscontrare legate alla posizione da ricoprire (va da sé che se sto cercando un trader, mi interesserà trovare una persona che sia in grado di reggere la velocità, l’adrenalina e lo stress che tipicamente si respirano nella sala mercati, mentre se sono alla ricerca di un impiegato amministrativo, porrò lo sguardo su precisione, affidabilità, attenzione alle procedure); dall’altro lato, tengo conto della corporate culture della società per cui lavoro, che si esprime nei valori aziendali.

In BNP PARIBAS sono importantissimi l’ambizione, la creatività, la reattività e la capacità di lavorare in team, oltre ovviamente all’ottima conoscenza della lingua inglese che in un ambiente multinazionale è davvero una conditio sine qua non.

L’ambizione, che comporta la formulazione di obiettivi di eccellenza, richiede una forte motivazione, determinazione e costanza; tutto questo deve andare di pari passo anche con una notevole elasticità mentale e capacità di adattamento, proprio perché uno dei fattori vincenti – in una realtà dove tutto è in continuo cambiamento – diventa la disponibilità al rischio e anche a fare un salto nel buio.

A volte sembra di richiedere immediatamente un impegno massimale ai candidati ma ciò non è nient’altro che una delle conseguenze che derivano dal tipo di realtà che sperimentiamo ogni giorno, mai uguale a se stessa e costantemente in evoluzione.

In un contesto aziendale come quello che vivo quotidianamente, ossia multinazionale e multibusiness, la programmazione diventa sempre più difficile perché le variabili in gioco sono tantissime e mutano in continuazione. Capita spesso che una persona assunta in una posizione oggi si ritrovi a ricoprire un ruolo completamente diverso domani: da un’area di Business prettamente operativo a una di Front Office, piuttosto che all’interno di una funzione di supporto. Da qui l’importanza di sapersi mettere in gioco e accettare le sfide.

Richiamo infine l’attenzione su un fattore che trascende tutti i requisiti, più o meno tipici, che un’azienda cerca nel “candidato ideale”. Si tratta di ciò che ognuno può tirare fuori dal “cilindro magico”: se stesso, con le proprie inclinazioni da valorizzare e la propria spontaneità. Così, “magicamente”, la persona giusta andrà al posto giusto.

Seminario straordinario

“Rendere al massimo nella vita nel lavoro e nello sport”
di Massimo Piovano

“Mai nulla di splendido è stato realizzato se non da chi ha osato credere che
dentro di sé ci fosse qualcosa di più grande delle circostanze.”
(Bruce Barton)

Ciascuno di noi dovrebbe desiderare di “rendere al massimo”. Siamo stati creati per avere obiettivi. Siamo stati creati per migliorarci continuamente e costantemente. Una persona senza scopi nella vita, priva di desideri e di sogni, è psicologicamente morta.
“Rendere al massimo” significa, dunque, porsi degli obiettivi, pianificare il presente e il proprio futuro.
“Rendere al massimo” significa sapere che cosa è davvero importante per ciascuno di noi e concentrare la propria attenzione al conseguimento dei propri obiettivi in linea con i propri valori.
“Rendere al massimo” significa avere un atteggiamento mentale positivo affinché non ci si lasci scoraggiare dagli eventi. Anthony Robbins, esperto studioso del comportamento umano, ha detto “La tua realtà è la realtà che tu ti crei”.
“Rendere al massimo” significa condurre una vita felice e far felice gli altri. Ma la felicità difficilmente si raggiunge in un ambito solo. Ci sono persone che hanno raggiunto il massimo nel lavoro, ma sono delle “frane” in famiglia. Ci sono atleti che sono diventati campioni sul campo ma dei perdenti nella vita.
“Rendere al massimo” significa, dunque, essere consapevoli che la vita non può essere concepita a comportamenti stagni, ma necessita di una connessione profonda tra tutti i suoi aspetti.
È questo uno dei principi della PNL Sistemica che rappresenta la cornice metodologica a cui mi sono ispirato per condurre questo seminario: viviamo in un mondo di sistemi, tutti connessi tra loro. Il corpo è un sistema, così come lo sono la famiglia e l’azienda in cui lavorate o il gruppo di amicizie che normalmente frequentate. Per rendere al massimo è davvero importante riuscire a conoscere approfonditamente questi sistemi per poter interagire al meglio con essi.
Ma c’è ancora un altro punto che merita di essere precisato. “Rendere al massimo” significa desiderare il miglioramento; in pratica l’atteggiamento che differenzia le persone che rendono al massimo nella vita da quelle che non lo hanno ancora raggiunto consiste proprio nel desiderio e nella volontà di fare sempre meglio.
La cultura occidentale ci ha abituato ai grandi cambiamenti, alle grandi innovazioni nel campo della tecnologia, dei macchinari, dei processi, ecc… Si tratta di miglioramenti a grandi passi che vengono realizzati da un ristretto numero di persone all’interno dell’azienda o della società in generale, che richiedono sforzi, a volte, anche molto consistenti. Questo miglioramento in giapponese viene chiamato Kairyo. Al contrario, la cultura orientale (in particolare quella giapponese) insegna che il cambiamento si fonda su piccoli miglioramenti, numerosi e continui. Si tratta del miglioramento e dell’apprendimento a piccoli passi o, in giapponese, Kaizen. Per essere felici e “rendere al massimo” dobbiamo continuamente e costantemente migliorare la qualità della nostra vita, crescendo ed espandendoci progressivamente.
Ma come riuscire a bilanciare le differenti esigenze? Come riuscire a distinguere tra gli aspetti urgenti e quelli importanti? Il seminario ha risposto a queste importanti domande ponendo l’accento sul solo elemento che rappresenta un potente effetto-leva in tutti i sistemi in cui agiamo: i nostri valori.
Il ritmo frenetico della nostra società ci lascia, spesso, poco tempo per pensare a cosa è davvero importante: la risposta a questa domanda fondamentale è molte volte soffocata dal vortice di riunioni, impegni e scadenze che dobbiamo affrontare tutti i giorni.
Uno dei pregi del seminario che ho condotto è stato proprio quello di ascoltare, attraverso una serie di esercizi pratici, i partecipanti e condurli nell’affascinante argomento dei valori. Saper, però, cosa è importante per noi ci serve in realtà a poco se non sappiamo dove vogliamo andare. Proprio per questo, il seminario si è soffermato sull’esplorazione approfondita dei parametri che determinano la definizione degli obiettivi professionali e personali.
Se le mete che ci poniamo sono poco realistiche o troppo generiche, non dobbiamo stupirci se non riusciremo a raggiungerle. Il nostro cervello, infatti, per poter attivare le migliori risorse interne ha bisogno di rappresentarsi gli obiettivi in modo preciso e “ben formato”.
Avere, però, la consapevolezza dei nostri valori e una rappresentazione chiara di dove vogliamo andare non basta certo per garantirci il risultato. È necessario agire, impegnandoci con grande energia e passione.
Il modello FEDE, presentato nel corso del seminario, è stato certamente un ottimo strumento per aiutare i partecipanti a passare all’azione e per raggiungere nel tempo gli obiettivi che si sono posti. Il modello FEDE è un acronimo per indicare: forza, energia, determinazione ed elasticità. FEDE è molto più di un acronimo, è il combustibile, la forza propulsiva per “rendere al massimo”. In pratica, la tesi di fondo è: avere fede significa credere. La strada migliore per raggiungere i propri obiettivi è la fede in se stessi. Senza questa autoconvinzione le proprie forze saranno molto limitate.
Per forza si intende quella di volontà che deriva dalla tenacia e dalla costanza nell’impegno. Senza impegno, senza sacrifici non si possono ottenere grandi vittorie. L’energia è la passione che scaturisce da ciò che si ha o che si vorrebbe fare. Alla base della concentrazione c’è l’energia fisica e psichica.
Oltre alla forza e all’energia, per conseguire grandi risultati, occorre la determinazione; condizionata dalle decisioni e dai valori che ci siamo formati nel corso della vita.
Infine, si è esaminata l’elasticità; intesa come la capacità di adattarsi alle circostanze della vita, in modo da ottenere e rendere sempre al massimo.
La forza, l’energia, la determinazione e l’elasticità sono elementi che si ritrovano in tutte le persone destinate a raggiungere i migliori traguardi.
La sensazione che ho avuto a conclusione del seminario è che le persone siano uscite con una maggiore fiducia in se stessi per raggiungere i propri risultati in sintonia con i propri valori.

Massimo Piovano – Consulente ETLINE e Associati

La consapevolezza dei valori organizzativi per la riscoperta dell’anima in azienda.

Il DEVOTO OLI recita alla parola valore: misura altissima e riconosciuta delle doti morali e intellettuali o delle capacità, specialmente nell’ambito professionale.
Di conseguenza valorizzare significa riconoscere o utilizzare il valore.
L’azienda come un essere umano ha: i suoi bisogni, che organizzativamente si chiamano profitto, le sue paure, che organizzativamente si chiamano crisi, le sue emozioni, che organizzativamente si chiamano sfide, i suoi pensieri che organizzativamente si chiamano regole e procedure, i suoi modi di agire che organizzativamente si chiamano strategie, le sue maschere, che organizzativamente si chiamano ricerca, sviluppo e cambiamenti di stile di leadership, la sua anima, che organizzativamente si chiama risorse umane, i suoi sogni, che organizzativamente si chiamano vision.

L’azienda, come gli esseri umani, ha valori e difese: il valore dell’efficienza, la difesa dell’inefficenza, il valore della forza, la difesa della fragilità, il valore della solidità, la difesa essere senza struttura, il valore della flessibilità, la difesa della rigidità, il valore dell’accoglienza, la difesa dell’isolamento, il valore dell’organizzazione, la difesa della confusione, il valore del controllo, la difesa della iperflessibilità etc…

L’azienda, come gli esseri umani, si innamora, entra in simbiosi, si separa, entra in intimità. La ricerca e il riconoscimento dei veri valori organizzativi arriva con la chiusura del processo di intimità.

Quando l’azienda evolve nel suo processo di divenire fino alla completa accettazione della sua esistenza arriva a permettersi, amplia la mappa dei suoi valori con quelle delle persone che in essa vivono.

Quando l’azienda persegue solo i suoi valori, senza riconoscere ed accettare i valori degli altri, rimane ferma ed è destinata ad un ricambio continuo, che organizzativamente si chiama turn over, e ad una paralisi che ha come conseguenza crisi e cambiamenti.

Il lavoro da fare, sia per coloro che osservano le organizzazioni dall’esterno, sia per coloro che ci vivono è attivare una ricerca del vero e non una ricerca di opinioni e di abilità di persuasione.
Riconoscere le reali responsabilità e non le giustificazioni che permettono di decidere chi vince; l’azienda che si prende carico della motivazione del dipendente, assumendosene la sua parte di responsabilità, tenendo conto anche della responsabilità del dipendente, così da trattenerlo e da non lasciarlo andar via.

Questo porta le aziende a raggiungere il più alto valore di giustizia e non semplicemente il diritto del più forte. Si trasforma da azienda di potere e di diritto in azienda di potenza e di dovere,dove la potenza è data dal valore che ha raggiunto e dovere perché sa di non sapere.

“L’uomo commette azioni sbagliate perché ignora ciò che è veramente giusto” (Seneca).

Tecniche teatrali e comunicazione aziendale

Ogni cosa è pronta se anche i nostri cuori lo sono

Enrico V è uno dei personaggi shakesperiani che rappresentano un comunicatore di successo. Per questo motivo cercheremo di analizzare il suo comportamento e capire quali sono i punti di forza del suo stile comunicativo. Egli comunica direzionalmente con le persone.
Enrico ascolta e parla con i suoi soldati per trovare attraverso di loro le motivazioni che li portano ad essere un gruppo pronto ad affrontare gli avvenimenti più imprevisti.
In questa prospettiva possiamo paragonare, arditamente, Enrico ad un manager ed evidenziare come una comunicazione efficace arrivi a motivare i propri collaboratori. Un gruppo di lavoro motivato può infatti lavorare per lunghi periodi sotto stress, fronteggiare flessioni o crisi di mercato in maniera ottimale.
Ogni gruppo di lavoro ha qualità e problematiche comuni a tutti gli esseri umani: un gruppo pensa, prova emozioni e reagisce agli stimoli. Ma un gruppo è formato allo stesso tempo da individui che attraverso ogni singolo pensiero e ogni singola sensazione aggiungono o sottraggono qualcosa rispetto alle aspettative degli altri componenti.
I componenti di un gruppo si muovono autonomamente all’interno dello stesso, e questo fa sì che non succeda quasi mai che un individuo faccia esattamente ciò che gli viene chiesto.
Questa continua interazione comunicativa è fonte di conflitti che a volte possono spaventare il manager che ricopre il ruolo di leader. Quando si ha a che fare con le persone siamo sempre di fronte ad una complessa pluralità di piani comunicativi.
Potremmo riassumere la comunicazione attraverso un diagramma:

Relazione_ Tempo_ Contenuto

Rispetto al contenuto, se alle persone viene chiesto di fare qualcosa, finiranno col chiedere “perché”.
La modalità con cui si risponde a questa domanda determina spesso il successo o l’insuccesso di una comunicazione interpersonale.
L’Enrico V ci offre ottimi esempi di efficacia comunicativa in momenti difficili.
La modalità che utilizza è quella di non limitarsi a parlare con loro ma inserirsi in un processo di crescita collettivo:
Esempio: nel pieno di una battaglia dall’esito incerto, Enrico rincuora i suoi uomini e insieme a loro decide di rischiare la propria vita in battaglia. (Atto III Scena I).
I grandi discorsi di Enrico V sono esempi di comunicazione finalizzata alla trasmissione di una vision.
Una vision comune può trasformare il rapporto gerarchico e dei ruoli che si strutturano all’interno delle organizzazioni aziendali in una relazione dinamica capace di coinvolgere le persone.
Enrico ha una vision molto chiara e forte, per questo capace di indurre profonde trasformazioni. I soldati si trasformano in uomini che fanno parte di un’entità (azienda) che li rappresenta.
Conoscere le persone e chiarire i rapporti di relazione e contenuto è fondamentale per sviluppare una comunicazione funzionale.
Enrico V spiega subito ai suoi uomini che vuole diventare ed essere un grande Re.
Da quel momento egli è consapevole che i suoi uomini valuteranno le sue azioni rispetto all’obiettivo che si è posto. La grandezza di Enrico V sarà quella di riconoscere l’importanza della crescita del suo gruppo di uomini come strategia di crescita personale.
In questo modo il personaggio costruito da Shakespeare non si riduce ad un condottiero buono grande ed eroico. Tutti noi, nei nostri sogni, vorremmo gestire il potere e l’autorità senza tracolli e guidare le nostre azioni da un successo all’altro.
Contemporaneamente dovremmo capire che la vita è piena di compromessi e difficoltà e dunque non può condurci a tale perfezione.
Le nostre relazioni sociali ci portano spesso a compiere azioni spiacevoli e difficili. Per questo i nostri eroi noi ce li immaginiamo ad una sola dimensione senza grandi complicazioni. Abbiamo bisogno di credere che c’è almeno qualcuno che non ci deluderà.
Ma la realtà in cui viviamo è confusa e complessa e lascia poco spazio a momenti di reale splendore ed eroismo.
Quello che fa Shakespeare con il personaggio di Enrico V può essere una grande lezione rispetto a queste problematiche. Enrico vive nel mondo disordinato e confuso che abbiamo descritto.
Per questo quando leggiamo “L’Enrico V” siamo invitati a guardare di questo grande leader le contraddizioni e i compromessi che sono propri di ogni essere umano.
Il messaggio di Shakespeare è molto forte: anche se raggiungi il successo, anche se sconfiggi tutti i tuoi concorrenti andando contro ogni probabilità, sei costretto a passare attraverso momenti oscuri e difficili. Essi sono al cuore dell’esperienza di ogni essere umano. Ambiguità, compromessi e risultati incerti fanno parte del lavoro di tutti i giorni.
Per questo la comunicazione di ciò che proviamo, di ciò che ci rende persone felici o infelici diventa fondamentale: dobbiamo imparare a sviluppare competenze comunicative e concettuali, imparare ad ascoltare ed apprezzare gli altri e le loro idee, riflettere sui valori personali ed allineare ad essi il nostro comportamento, in altre parole:
“Ogni cosa è pronta se anche i nostri cuori lo sono”.

Simona Colombo – docente e membro del comitato scientifico del Master in “Selezione, Formazione e Sviluppo delle Risorse Umane”