I giochi in AT

12 Febbraio 2002

A che gioco giochiamo!! Come sostituire i comportamenti disfunzionali con risoluzioni positive.
Cosa significa giocare in senso disfunzionale?
Come è possibile arginare o smettere di giocare?
Come è possibile sostituire vecchi automatismi con scelte consapevoli e soprattutto volute?

Per rispondere a queste domande sembrerebbe semplice dire: basta volerlo!!
Ma questo non basta! Per trovare delle risposte riprendiamo la teoria dei giochi in Analisi Transazionale.
Il gioco per Berne consiste in una serie continua di transazioni complementari ulteriori, ripetitive che tendono a un tornaconto prevedibile (solo per gli osservatori esterni) e con un pensiero negativo (su se stessi, altri, o la vita,) inevitabile perché all’inizio c’è stata una svalutazione su di se, dell’ altro o di entrambi. Il finale è quindi una sensazione di malessere da parte di una o più persone interessate a quella relazione. Il gioco è anche definibile come un meccanismo manipolatorio appreso, che inizia da una svalutazione e termina con una conferma degli assunti di base del copione.
Tutti i giochi sono riproposizioni di strategie infantili non più adatte a noi come persone adulte. I giochi sono effettuati da una qualsiasi parte negativa degli Stati dell’IO: Bambino Adattato Negativo, Genitore Normativo Negativo, Genitore Affettivo Negativo.
Le persone tendono a fare un numero limitato di giochi favoriti con le diverse persone con cui entrano in contatto, e con grado di intensità diversa. Più la relazione tra i giocatori sarà stretta più i giochi avranno una intensità maggiore.
Per Berne esistono tre gradi di intensità nei giochi:
I° grado: i giocatori avvertono un senso di disagio: giochi accettati e rinforzati dall’ambito sociale dei giocatori
II° grado: stato d’animo alla fine è decisamente spiacevole e i giocatori fanno in modo che i giochi non vengano scoperti dall’ambito sociale
III° grado: lo stato d’animo finale non solo è spiacevole e grave a livello emotivo, ma anche a livello fisico (coltellata, gravidanza non desiderata…) e possono portare al carcere, all’ospedale e all’obitorio.
Altra divisione è tra giochi leggeri ( in rilassamento) e pesanti (in tensione), e non sono direttamente proporzionali al grado di intensità del gioco.
I motivi che si hanno per fare un gioco psicologico sono i seguenti: soddisfare il bisogno di carezze (anche se negative), rispondere la bisogno primario che deriva dalla fame di carezze che è quello di strutturare il tempo, mantenere la propria posizione esistenziale, portare avanti il copione, continuare ad avere una relazione emotiva quando il ricatto (espressione manipolatoria, a volte inconsapevole, di emozioni, necessità e comportamenti arcaici che servono a mantenere l’altro in una relazione simbiotica) non funziona più, collezionare reazioni emotive che serviranno per giustificare un dato comportamento. Sfuggire l’intimità con l’altro pur mantenendo rapporti emotivamente intensi, rendere l’altro prevedibilmente agganciabile allo stesso gioco.
I vantaggi di giochi sono:
Vantaggi psicologici interni: è l’effetto di omeostasi dell’economia psichica interna che il gioco da, con la conferma delle opinioni del copione nel qui ed ora
Vantaggi psicologici esterni: evitamento di situazioni sociali ansiogene: es responsabilità, l’impegno, l’intimità sessuale
Vantaggi sociali interni: il modo in cui il gioco permette di strutture il tempo nella cornice pseudointima es: “è tutta colpa tua”
Vantaggi sociali esterni: Definisce la frase dei giochi derivati dalla sfera intima, come il tempo è strutturato in situazioni più ampie “se non fosse per lui”
Vantaggi biologici: carezze negative
Vantaggi esistenziali: conferma della posizione esistenziale da cui il gioco parte

Detto tutto questo è importante chiedersi come mai se tutto ciò è fonte di malessere l’esser umano passa così tanto tempo a giocare non cercando di uscire veramente dalle situazioni di empasse?
La risposta ci riporta al bisogno di carezze elemento irrinunciabile dell’essere umano e alla paura di affrontare il cambiamento anche se verso “lo stare meglio”. Le motivazioni che inducono ad opporsi al cambiamento sono molte:

1. perpetuare un sistema di vita e lavoro conosciuto e sperimentato
2. timore che il cambiamento violi valori, tendenze, gusti e abitudini sociali radicati
3. tendenza al conformismo, sia all’individuo sia dei gruppi organizzati
4. fastidio e ansia procurati dal senso di incertezza e di instabilità indotti da un impulso al cambiamento
5. riluttanza ad alterare o mettere in discussione gli equilibri esistenti nel sistema, famigliare, sociale e/o organizzativo
6. convinzione che il cambiamento comporti sempre e comunque una perdita ed un costo
7. paura di non essere adeguato o capace per riuscire ad adattarsi alla nuova situazione e di trovarsi quindi in una difficoltà ancora maggiore

Cosa fare?
“L’unica certezza in tempi di cambiamento è quella che si costruisce dentro di sé”, come dice Carol Kinsey Goman. Per conquistare questa certezza bisogna ricordarsi che continuare ad affrontare gli stessi cammini ci porterà sempre agli stessi paesi ovvero ai “GIOCHI – la sicurezza che così non funzionerà”, mentre sperimentare nuove strade con molta probabilità ci porterà a nuovi approdi ovvero ALL’INTIMITÀ RELAZIONALE – la possibilità che così potrà funzionare”.

Barbara Demi- Analista Transazionale e Partner ETLINE e Associati

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